Alle richieste di Coldiretti le associazioni ambientaliste e animaliste rispondono con una lista di strumenti alternativi alle uccisioni e più efficaci 

“Coldiretti non sta facendo un buon servizio ai suoi associati. Proporre la caccia come soluzione ai problemi dei danni all’agricoltura vuol dire insistere su una strada sbagliata e fallimentare che fino a oggi non ha prodotto alcun risultato, anzi è stata parte del problema. Se la caccia fosse una soluzione, gli agricoltori non sarebbero scesi in piazza per chiedere interventi straordinari per contenere i danni alle colture, visto che da decenni sono centinaia di migliaia gli animali abbattuti senza che ciò abbia contenuto minimamente i danni, né le popolazioni stesse di ungulati”. È questa la tesi con cui Enpa, Lac, Lav, Lipu e Wwf rispondono alla manifestazione organizzata da Coldiretti davanti a Montecitorio il 7 novembre scorso.

“Esiste un problema reale e complesso che bisogna affrontare con strumenti seri ed efficaci e professionisti del settore, non continuando a delegare ai cacciatori la gestione della fauna italiana”, ribadiscono le associazioni un una nota congiunta. “Sul territorio italiano, secondo i dati Ispra del 2010, si stima la presenza di quasi due milioni di ungulati selvatici: cinghiali (90 0mila), caprioli (450 mila), camosci alpini (120 mila) e cervi (60 mila). Più contenuta la presenza di mufloni e stambecchi, e ancor più quella del camoscio appenninico (meno di 2000). I motivi dell’espansione degli ultimi decenni sono ben noti: l’abbandono di agricoltura e allevamento in zone marginali, con conseguente espansione di foreste e boscaglie, ha creato nuovi habitat ed elevata disponibilità di cibo. Accanto a questi motivi ecologici, si sono sommati quelli ludici: molte specie sono state infatti ripopolate anche a scopo venatorio, con il risultato che gli agricoltori lamentano danni alle colture ritenuti insostenibile. Ma la soluzione c’è, e parte proprio dall’eliminare i fattori che gonfiano artificialmente le popolazioni di ungulati”.

Secondo le associazioni, anzitutto occorrerebbe eliminare ogni pratica, legale o meno, di ripopolamento e foraggiamento degli ungulati, vietate da anni per il cinghiale ma che ancora vengono messe in campo per timore che cali la fauna selvatica a disposizione. “A questo si somma il ‘vantaggio’ legato alle molte vendite illegali delle carni (che può raggiungere un giro di affari di milioni di euro ogni anno), grazie alla disponibilità di ristoratori compiacenti e alla scarsità di controlli sanitari e fiscali”, sottolinea la nota. “È quindi evidente che il mondo venatorio non ha alcun interesse a ridurre la presenza di ungulati sul territorio, perché ne trae divertimento ed utilità. Anzi, la stessa caccia esercitata in modalità non selettiva, come nella braccata, può far addirittura aumentare le popolazioni di cinghiali, rimuovendo gli individui di maggiori dimensioni (gli adulti) con la conseguente riproduzione anticipata degli individui più giovani, che in presenza degli adulti non si riprodurrebbero”.

Occorrerebbe inoltre introdurre metodi ecologici, cioè quelle modalità di prevenzione e gestione del territorio che riducono la possibilità di accesso della fauna alle coltivazioni. Tra queste, gli ambientalisti suggeriscono l’uso di “recinzioni elettrificate da installare nei periodi di maggiore vulnerabilità della colture, in particolare dopo la semina, la comparsa dei germogli o dei frutti maturi. Strumenti previsti dalla legge come obbligatori e prioritari, raccomandati da Ispra, ma largamente ignorati, tanto che il Tar Toscana ha recentemente sospeso la caccia al cinghiale in braccata. Per la difesa di appezzamenti inferiore all’ettaro, sono sufficienti poche ore di lavoro e poche centinaia di euro per realizzare recinzioni elettrificate a prova di cinghiale nei periodi più delicati. Azioni realizzabili grazie ai relativi fondi messi a disposizione dai Piani di Sviluppo Rurale cofinanziati dall’Unione Europea, finora scarsamente utilizzati”.

Infine, qualora siano ancora necessari interventi puntuali e scientificamente motivati per il controllo delle popolazioni, secondo le associazioni “vanno privilegiate le catture agli abbattimenti selettivi, e in ogni caso devono essere effettuati esclusivamente da personale pubblico (ad esempio ex personale delle Province) adeguatamente formato a livello tecnico e scientifico, e in nessun modo in conflitto di interesse rispetto all’effettiva riduzione dei danni, da valutare e verificare su basi scientifiche per trovare soluzioni sempre più efficaci”.

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