La vendita di aragoste, astici e altri crostacei non può avvenire esponendo gli animali su ghiaccio e con le chele legate. Lo afferma anche il Ministero della Salute in un documento medico-scientifico redatto dal suo Centro di Referenza Nazionale per il Benessere degli Animali, intitolato “Sofferenza di aragoste e astici vivi con chele legate e su letto di ghiaccio durante la fase di commercializzazione”. Per contrastare tale pratica occorre far valere questo principio anche in ambito penale attraverso denunce per violazione dell’articolo 544 ter del codice penale, che punisce il maltrattamento di animali punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi o con la multa da 5 mila a 30 mila euro.

Il documento tecnico-scientifico del Ministero della Salute afferma: “Il posizionamento degli animali sul ghiaccio, anche se avvolti in sacchetti a tenuta, è assolutamente inappropriato sia come metodo anestetico che come metodi di stoccaggio, in quanto il contatto diretto con il ghiaccio determina asimmetria della perfrigerazione, sbalzo improvviso di temperatura, shock ipoosmotico da acqua di scioglimento o da condensa, ipossia e stress anaerobico”. 

A proposito di esposizione alla luce diretta e intensa, come spesso succede nei banchi dei negozi e dei ristoranti, il parere medico scientifico parla di “condizione generatrice di stress che riduce inoltre i tassi di sopravvivenza”. 

Per ciò che riguarda la legatura prolungata delle chele afferma che questa “determina atrofia muscolare e inibizione dell’alimentazione se naturale e causa la ben più importante interferenza con i comportamenti di minaccia/difesa, l’applicazione della banda in animali freschi di muta può distorcere e indebolire le chele”.

L’autorevolezza e l’ufficialità della fonte di questo parere tecnico-scientifico consentono di ottenere sanzioni a favore degli animali e di mettere al bando questa pratica crudele tanto quanto la cottura delle aragoste vive in acqua bollente.

Secondo il parere espresso dal dottor Enrico Moriconi, medico veterinario, già presidente dell’Associazione veterinaria per i diritti degli animali: “Si può affermare senza tema di smentite che le aragoste mantenute sul ghiaccio sono in uno stato malessere e stress e pertanto chi li sottopone a tali condizioni causa loro una sofferenza punibile ai sensi della legge 189\04 (…). Se si analizza con lo stesso metro di giudizio il sistema di uccisione per immersione in acqua bollente, è ugualmente chiaro che il metodo è sicuramente doloroso perché la coagulazione delle proteine non avviene immediatamente a tutti i livelli e il danno provocato dal calore, cioè dall’acqua bollente, induce un dolore molto intenso (…) si deve affermare che si tratta di maltrattamento sia il mantenimento sul ghiaccio delle aragoste sia la loro soppressione tramite immersione in acqua bollente”.

La giurisprudenza di merito ha già confermato tale assunto con diverse pronunce, tra cui il Tribunale di Vicenza (24 aprile 2006) che ha emanato un decreto penale di condanna ad un ristoratore reo di aver maltratto gli astici, o la stessa Procura di Milano (6 novembre 2006) che ha emanato un decreto penale di condanna contro un ristoratore milanese.

Anche la Corte di Cassazione ha sancito, nel gennaio del 2017, che commette reato di maltrattamento di animali chi li conserva in “modalità impropria”, come ha fatto un ristoratore di Campi Bisenzio che conservava i crostacei sotto ghiaccio e con le chele legate. Il direttore del ristorante finito sul banco degli imputati era stato denunciato per aver riposto crostacei in una cella frigorifera. Avevano anche le chele legate. E, dunque, secondo l’accusa si trovavano “in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze“.  “Non può essere considerata come una consuetudine socialmente apprezzata”, scrive la Cassazione, “il detenere questa specie di animali “a temperature così rigide, tali da provocare sicure sofferenze” se ci sono “sistemi più costosi” per conservarli in maniera più rispettosa. Non costituisce invece reato di maltrattamento il cucinarli vivi. Infatti, “la particolare modalità di cottura può essere considerata lecita in forza proprio del riconoscimento dell’uso comune”.

E alcuni Comuni, per esempio Roma, hanno espressamente vietato questa pratica nei propri Regolamenti per la tutela degli animali.

Leggi qui il Regolamento comunale sulla tutela degli animali del Comune di Roma